Per la mitologia greca, il corallo era il sangue sgorgato dalla testa della Medusa decapitata da Perseo, e da questi gettata in riva al mare; un ultimo sguardo pietrificatore avrebbe reso solido il suo stesso sangue, versatosi su alcune alghe che lì si trovavano, determinando la forma arborescente. Certo la credenza che il corallo sia il sangue pietrificato di un mostro mitologico è quanto mai fantastica e suggestiva,una cosa è certa, esso ha affascinato l’essere umano da tempi immemorabili. Il corallo è stato utilizzato in epoche primordiali come amuleto, lo si evince da alcuni ritrovamenti archeologici, mentre per i pratici romani era “il miglior frutto del mare” come si legge nelle Metamorfosi di Ovidio; questi ultimi credevano anche, che al collo dei bambini li proteggesse dai pericoli, mentre indossato dalle donne era di buon auspicio per la fecondità; la convinzione che il corallo avrebbe il potere di allontanare le energie negative e le forze del male, è certamente una costante nelle diverse culture, non solo del Mediterraneo, e i significati attribuiti nei secoli, dalle diverse etnie, alle proprietà curative ed apotropaiche, sono innumerevoli. La forma arborea fuorviante, ha contribuito ad alimentare nel passare del tempo il dubbio che il corallo appartenesse al regno vegetale e non a quello animale, allorché ancora fino al 1600, lo studioso Ferrante Imparato nel suo libro “Trattato del mare” affermava, senza alcun dubbio, che in base alle sue ricerche la natura vegetale del corallo era chiara. La diatriba è continuata a più riprese con le affermazioni in senso opposto, nel diciassettesimo secolo, dell’alchimista e astrologo napoletano Filippo Finella, suffragate infine nel 1723 da quelle del medico marsigliese Andrea Peyssonel, che annuncia finalmente che il discusso alberello è un animale o per essere precisi è lo scheletro comune di centinaia di polipi. Il polipo del corallo, è dotato di otto tentacoli (ottocoralli) e si può riprodurre per via sessuata quando genera una nuova colonia, o per gemmazione quando rafforzando la propria struttura calcarea causa un ingrandimento della stessa e quindi del “cormo” (ramo di corallo). Quando il polipo è in fase riproduttiva sessuata, rilascia delle “planule” che vagano nelle profondità marine, per una decina di giorni, alla strenua ricerca di un substrato, qualsiasi esso sia; a tal proposito il recentemente scomparso Basilio Liverino, nel suo libro “Il corallo”, riferisce di alcuni ritrovamenti su parti di relitti, conchiglie, pipe di pescatori smarrite ed addirittura teschi umani. Quello che volgarmente definiamo ramo, dovrebbe essere chiamato più correttamente polipaio; esso è costituito da una struttura calcarea (90% carbonato di calcio) denominato “sclerasse”, a sua volta ricoperto da una soffice membrana della consistenza del velluto, il “cenosarco”, formata da tanti piccoli canali nei quali “alloggiano” i polipi. In alcuni momenti della loro lunga vita, ogni qual volta devono nutrirsi, essi si estroflettono affacciandosi dalle loro microscopiche tane, per catturare gli organismi planctonici in sospensione, facendo così, come si dice in gergo “fiorire” il polipaio. La colorazione dello sclerasse di quel rosso vivo, che ha fatto impazzire nei secoli donne di ogni razza, estrazione sociale ed età, sarebbe dovuto all’ossido di ferro ed al tipo di nutrimento, mentre il ritmo di crescita, da alcune osservazioni subacquee, dovrebbe essere di circa 2 cm annui. Il “Corallium rubrum”, questo è il nome scientifico dell’animale,
è stato pescato nel bacino del Mediterraneo già dalla notte dei tempi, fino alla fine degli anni ottanta, quando, la pesca che tradizionalmente veniva effettuata dalle imbarcazioni, con l’ingegno e le reti, venne vietata perché altamente distruttiva. Circa 30 anni prima era però iniziata, nell’estate del 1954 a Palinuro, in maniera del tutto fortuita, la pesca “subacquea” del corallo, un metodo di raccolta molto selettivo, tuttavia infinitamente più rischioso, tanto è vero che già nel 1955 si dovette, purtroppo, registrare la prima delle tanti morti legate a questo tipo di immersioni lavorative in profondità, quella di un giovane francese. Durante i favolosi anni ‘60, tutto il golfo di Napoli e la costiera, soprattutto amalfitana con Positano, saranno teatro di alcune stagioni di pesca, che faranno scalpore nell’opinione pubblica, anche per il contorno di mondanità, di gioia di vivere e purtroppo di
alcune tragedie. Il mestiere della raccolta subacquea del corallo mediterraneo, ancora oggi rappresenta l’unico canale rimasto ai commercianti per approvvigionarsi della preziosa materia prima , per i loro gioielli, fenomeno unico al mondo, poiché i coralli, genericamente definiti giapponesi (Corallium Japonicum e similari), vengono pescati da imbarcazioni armate a corallo, con particolari reti ed ingegni, a profondità molto maggiori (fino ad oltre 1000 m). Diversi studi, hanno chiarito che il “Corallium rubrum” non è certamente una specie in via di estinzione, esso costituisce banchi in tutte le aree del mediterraneo, non ancora sfruttate da pescatori subacquei ed in passato da imbarcazioni, fino a profondità di oltre 200 m.; in altre aree la pesca intensiva ha sicuramente ridotto le quantità disponibili. Il corallo rosso, per convenzione denominato “Sardegna” è una importante risorsa, comune a molte culture del mediterraneo, e sarebbe quindi auspicabile organizzare un sistema di sfruttamento dei banchi “a rotazione”, che tenga quindi conto del lento ritmo di crescita, regolato da leggi ed accordi internazionali che favoriscano un ripopolamento nei luoghi dove in passato la pesca è stata intensiva ; quella legata al corallo non è solamente una risorsa economica, è soprattutto un patrimonio culturale che è nostro dovere preservare, bisogna garantire la possibilità di lavorazione e di impiego in un artigianato altamente specializzato, che produce quei manufatti di grandissimo livello, che tutto il mondo ci invidia.