I Riti della Passione
di Antonino Fiorentino
La Pasqua, che è festa di resurrezione, è anche festa di primavera, rito di passaggio stagionale, che custodisce sin nel nome l’eco di tale transizione: esso deriva infatti dall’aramaico “pasha” che significa “passaggio”. Nella Settimana Santa la memoria del Dio che risorge si articola con il simbolismo della natura che si risveglia. Non a caso la Pasqua,come altre feste analoghe nel mondo mediterraneo precristiano, cade nella domenica che segue il primo plenilunio dopo il ventuno marzo, quindi intorno all’equinozio di primavera, quando la natura rinasce dal sonno invernale e il ciclo delle messi volge verso la stagione della fioritura e dei raccolti. Tale simbolismo di morte e rinascita, di tenebra e di luce, è ancora avvertibile nelle “funzioni” della Settimana Santa: nel rito dei “Sepolcri” allestiti il Giovedì Santo, con il grano pallido fatto crescere nel buio delle chiese parate a lutto per la morte dl Cristo. E, soprat-tutto, nelle processioni del Venerdì Santo quando la sagoma nera della Madre in lutto veglia come una grande Icona del dolore sul corpo esangue del Dio Incarnato. In pochi luoghi del Mediterraneo il teatro della passione celebra i suoi fasti con la stessa corale simultaneità che accende improvvisamente,come una partitura segreta, I’intera penisola sorrentina. Ogni paese intona la sua variazione sul tema arcaico della morte e resurrezione. Affiora così, da questa armonia di differenze una geografia segreta, la ragione, spesso dimenticata, di una antica unità. Nei riti sorrentini della Passione le costanti emergono di gran lunga sulle variazioni, di minima entità nel corso del tempo. Prima di tutto il colore: il contrasto tra il bianco ed il nero rappresenta la prima costante delle sacre rappresentazioni in cui i simboli della passione diventano racconto e storia dell’evento nella memoria collettiva. Come costante è la forte volontà di partecipazione che si manifesta come segno devozionale e penitenziale insieme. Allargando il campo della geografia della penisola sorrentina, si potranno cogliere variazioni ove si evidenziano nel colore delle vesti, oltre al bianco e al nero, il rosso e il viola, I’introduzione di figuranti in costumi romani antichi che se danno una caratterizzazione storica più eloquente e vicina a racconti evangelici, si allontanano però dalla impostazione, di tono penitenziale, che fu introdotta nel 17° secolo, qui in penisola, dalla presenza dei Gesuiti. Le salmodie processionali variano anch ‘esse. Se a Sant’Agnello il corteo si muove sulI’onda di una musica grave e ribattuta, il corteo di Piano, invece, si muove con passo lento, quasi recitando un “Officium tenebrarum”. La “Bianca” di Meta, a sua volta, intona a voce spiegata un “Cantus firmus”, mentre i Neri di Massa Lubrense sembrano un coro di frati guerrieri sul punto di prorompere in un Dies irae. Proprio dalle stanze notturne della memoria sembra avanzare verso di noi la schiera Bianca di Sorrento risalendo i crinali della notte. E dalla medesima lontananza sembra emergere il vessillo della Nera di Sorrento con le insegne tenebrose della morte stemperate nella chiara fluorescenza della notte mediterranea. Mentre il corpo del Cristo piagato, portato amorevolmente a spalla e disposto con grazia femminile su tappeti di fiori e merletti, fa pensare ad una anatomia della passione collettiva, in cui una antica scienza del lutto si sposa ad un’estetica della comunità, della “compassione”, ovvero del patire insieme. Pur tra variazioni e costanti, i riti della Passione sono, in penisola, lo specchio di una fede atavica che si manifesta con continuità di intenti quasi come un’eredità preziosa che si tramanda nella sua interezza di generazione in generazione.
Il testo si richiama alla prefazione, scritta da Marino Niola, di cui sono riprodotti ampi stralci, dell’opera “Gli Incappucciati” di Gianfranco Capodilupo che ci ha permesso questa operazione.