È instancabile. Nonostante la lunga vita, la molteplice attività di giornalista, scrittore, direttore di vari quotidiani, saggista e altro, Antonio Ghirelli è più attivo che mai. Dopo aver pubblicato e presentato in giro per l’Italia “Una certa idea di Napoli”, libro che “ tra storia e leggenda, parole e musica, ricordi personali e cronaca di costume, è un ritratto originale di una città unica”, è già pronto a nuove imprese. Ed è con il consueto sorriso, la sapienza della cultura e la generosa voglia di collaborare, che affronta temi che gli sono cari. Con il peso della sua esperienza, il senso della qualità e la capacità di andare oltre. Soprattutto quando il tema principale è Napoli, la sua città. Al Chiostro di San Francesco tra i protagonisti della rassegna “Sorrento gentile”, Antonio Ghirelli racconta il suo legame con Napoli e con Sorrento.
Da testimone eccellente della nostra storia vuol dirmi a che punto è l’Italia? Quali i momenti significativi, le cose da salvare o quelle inaccettabili?
Insopportabile è l’indifferenza di gran parte degli italiani: di destra, di sinistra e di centro… Il governo non ha la forza di portare a compimento le riforme indispensabili per superare la crisi, l’opposizione non trova gli uomini, le idee, i progetti….
Ripensando al suo passato chi o cosa le hanno insegnato di più?
Il periodo più convincente della nostra storia è quello tra il 1943 e il 1968 della Prima repubblica, poi prolungata fino agli primi anni del nuovo secolo. Il popolo italiano superò con ammirevole impegno la paurosa crisi della guerra, grazie alla “ democrazia” inventata dai partiti democratici, recuperammo una felice condizione economica e realizzammo riforme di grande significato civile: lo statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto, la riforma sanitaria… Pur pagando un duro prezzo fu il solo paese europeo a realizzare un miracolo il cui insegnamento fondamentale è che la politica più intelligente e positiva è quella che combina le nuove idee in un clima polemico ma non intollerante, come spesso accade oggi.
Come altri intellettuali ed artisti ha vissuto gran parte della sua vita lontano da Napoli, pur citandola sempre e dedicando alla città libri bellissimi. Che cosa rappresenta Napoli per lei?
Per me Napoli è anzitutto mia madre che, con il suo amore e la sua intelligenza, mi ha insegnato a conoscerla ed amarla. Una città meravigliosamente contraddittoria come la vita, con una storia che non mi stanco di rievocare tanto è ricca di personaggi, di vicende, di dolori, di ironia, di amore. Non sa quello che dice chi parla di inferiorità razziale o morale… Secondo la celebre definizione di Gaetano Salvemini non è certo la razza ma la storia – delle occupazioni straniere, delle classi dominanti, delle lotte politiche, delle crisi economiche, e anche della cultura, dell’arte, del teatro, della musica, della poesia – che fa il carattere, le abitudini, il bene e il male della personalità, sia singola che collettiva.
Se ha mai nostalgia del passato quali i ricordi più cari?
Non soffro di nostalgia perché Napoli è dentro di me, me la sono portata a Mosca, a New York, a Santiago e a Tokio…I ricordi più belli sono legati alla mia adolescenza, a mia madre, al mio Liceo Umberto, all’incontro con la ragazza sposata nel 1945, che per cinquantasei anni mi ha dato la più grande, dolce, duratura felicità del mondo. Al Liceo ho conosciuto un gruppo di ragazzi straordinari che hanno contribuito in modo decisivo a formare la mia personalità e il tipo di carattere: Raffaele La Capria, Peppino Patroni Griffi, Francesco Rosi, Giorgio Napolitano, Francesco Compagna, Barendson…
Quale sentimento domina la sua vita attuale? L’indignazione, la piacevolezza o cos’altro?
La morte di mia moglie Barbara mi ha annientato. Ho perduto la gioia di vivere e sono rimasto esclusivamente attaccato al lavoro. Per l’impegno politico resto fermo nella mia fede alla democrazia, nel socialismo e nella cultura, ma mi sento trasformato da indomito combattente a rassegnato spettatore.
In linea generale è ottimista per l’attività intellettuale del nostro paese?
Non dobbiamo pensare al peggio per due ragioni: il ritmo dei cambiamenti della società informatica è rapidissima e quindi la crisi attuale non può considerarsi definitiva, la seconda ragione è che non solo i napoletani ma tutti gli italiani danno il meglio quando si ritrovano con le spalle al muro.
Quali sono i suoi attuali interessi?
Lego, leggo, leggo. Soprattutto libri di storia politica, come ho cominciato a fare a otto anni quando decisi che da grande avrei fatto il direttore di giornali. Ne ho diretti sei tra cui “ Il Globo”, “l’Avanti”, “ Il mondo”e il Tg2.
Se di forza vogliamo parlare, in chi o in che cosa l’ha trovata?
Nelle tre donne della mia vita: mia madre Clorinda, mia zia Marta e mia moglie Barbara, semplicemente incantevole come l’ho definita nel piccolo libro che le ho dedicato. Questo spiega quanto sia femminista e giudichi essenziale quanto fatto per la liberazione della donna.
Nel suo libro “Una certa idea di Napoli” affronta l’analisi della città e dei suoi abitanti…
Racconto la città che amo. Che non è solo affollata di bellezze e di ricordi ma è affollatissima di gente. I napoletani non sono capitati per caso ma vi sono nati con un’impronta più o meno marcata, sempre riconoscibile, cresciuti con una fortissima connotazione genetica e ambientale, ne hanno assorbito e al tempo stesso determinato natura e cultura.
Quanto va valutato il giornalismo napoletano? E’ vero che rispetto a quello di altre città ha una marcia in più?
Fu Miriam Mafai, brillante esponente del giornalismo a sostenere che tutto il giornalismo italiano è figlio di Matilde Serao e di Edoardo Scarfoglio, affermazione tutt’altro che retorica… Dalla Serao abbiamo ereditato la ricchezza della scrittura e la capacità di guardare con occhio attento la realtà del paese…. da Scarfoglio il gusto della polemica, della sfida ..e anche una buona dose di spregiudicatezza…”
Ha un ricordo che vince su tutti?
Quello dell’unico magico momento della mia vita. Barbara, allora diciottenne, entrò nell’ufficio dove ero andato a trovare Luigi Compagnone. Tutta vestita di bianco, alta, snella, incantevole. Poche parole in tutto, poi sorridendo scomparve. “E’ ‘o tipo mio”, dico, e Luigi: ”Antò, si sempre ‘o stesso”. Ed io senza riflettere, senza esitare, misteriosamente: ”No, chesta m’a sposo!”. Sette mesi dopo lo feci.
intervista di Giuliana Gargiulo, foto di Michele Gargiulo (FOTOSPORT)