Pasqua è la festa del perdono, della pace, e la nostra penisola sembra fremere al soffio del vento che racconta tra i rami frondosi dell’ulivo argentato antiche tradizioni, momenti di magica e nostalgica tenerezza accumulata tra le mura di rustiche case costruite con l’amore dell’uomo che ha sempre cercato un focolare sicuro per la sua famiglia. In una di queste dimore (nella frazione di Mortora a Piano di Sorrento), nascosta tra alberi d’arancio e protetta dall’ombra di pergolati di pagliarelle ho incontrato nonna Teresina Sessa, seduta nel cortile su una sedia di legno e paglia, con il grembiulone annodato sui fianchi e le mani immerse in una scodella di terracotta dove viene mescolando un impasto di farina ed uova. Nonna Teresina ha ottantasettanni, i capelli tirati sulla nuca ed avvolti in una sottile treccina, due occhi ancora vispi e un sorriso placido che ricorda la sua maternità di ben dieci figli, cinque maschi e cinque femmine, una nidiata copiosa che nel passato si raccoglieva intorno alla tavola per festeggiare la Santa Pasqua insieme al marito Mariano. Un pranzo semplice, un pranzo contadino, un messaggio d’amore per stare insieme nel rispetto di tradizioni e di riti. Un cenno di croce, la benedizione del cibo con un ramoscello d’olivo, colto dal vicino albero, che il nonno Tommaso aveva piantato in una Pasqua di un ottocento lontano, una tovaglia bianca ricamata, quella delle grandi occasioni, un grosso pane appena uscito dal forno a legna, una brocca d’acqua, una di vino rosso sincero, un piatto di terracotta dove facevano bella mostra fette di salame, di capicollo, dei sottaceti, delle uova soda, delle caciotte fresche, tutti prodotti della terra a cui la famiglia donava il suo tempo e il suo sudore. Era babbo Mariano che assegnava le parti per ogni figlio e ognuno attendeva il suo turno. Poi dalla cucina veniva portata una scodella dove fumavano gli “ziti” spezzati a mano, conditi con una salsa di ragù (fatto bollire per quattro o cinque ore con la tracchietta di maiale nella pignata di creta) spolverata da una spruzzata di caciotta secca. A questa pietanza seguiva l’agnello fatto a zuppa, denominato’’ o beneritto” (il benedetto per la foglia di alloro che veniva aggiunta nella pentola a cottura ultimata). Il pranzo terminava con la tradizionale pastiera e il casatiello, dolci che dimostravano la bravura della cuoca. Nonna Teresina preparava la pastiera con il grano, la ricotta e le scorzette di arancio e mandarino, non c’erano ancora i canditi come oggi. La sua era una ricetta povera, ma saporitissima. «Noi sfruttavamo tutto quello che c’era in casa, non avevamo grandi possibilità di comprare; specie in una famiglia contadina numerosa come la mia – dice nonna Teresina -, anche le uova non erano di cioccolata ma quelle delle galline che io coloravo avvolgendo intorno dei fili d’erbe e dei fiori e facevo bollire e come per magia si impregnavano delle tinte della natura, quelle erano le nostre uova, il più naturale possibile» e così parlando mi sorride e mi invita a guardare un gruppetto di bambini, parte dei sedici pronipoti, che schiamazzano nel cortile rossi e sudati «Anche a loro piacciono le mie uova colorate, per Pasqua dovrò prepararne tante, la famiglia è cresciuta».
Cecilia Coppola