Passi cadenzati, quasi marziali, rompono il religioso silenzio, tenui e tremolanti fiammelle sembrano librarsi nell’aria in ordinata successione, squarciando la profonda oscurità della notte. Alla fioca luce di torce e lampioni, ecco incedere la lunga teoria di «incappucciati», come usciti dalle più profonde latebre, ognuno recante un simbolo della tribolata Passione del Cristo, fattosi Uomo per redimere l’umanità su cui grava il peccato d’Adamo. Di lontano l’eco di un canto che si fa lamentosa preghiera di espiazione. Tra due fitte ali di popolo in cui prevale su tutto il sentimento della commozione e della pietà umana, si snoda la processione degli incappucciati del Venerdi Santo, giorno del supremo sacrificio di Dio per la salvezza dell’uomo. Da secoli, sulle stesse strade di Sorrento, si continua così un rito antico, espressione di sofferta e partecipata religiosità, ancorata ad una tradizione che si trasmette da generazione in generazione, da padre a figlio. Erede di analoghi riti penitenziali di cui si ha notizia già dal 1200, l’attuale processione degli incappucciati o meglio, le attuali processioni, perchè a Sorrento se ne svolgono due: una all’alba del Venerdi Santo e un’altra la sera dello stesso giorno, organizzate da due diverse confraternite laicali, quella di Santa Monica e quella dell’Arciconfraternita della Morte o dei Servi di Maria, erede della più antica confraternita di S. Catello, esse esprimono la profonda e radicata religiosità della nostra gente. che fa della partecipazione alle processioni un momento di manifestazione della propria fede, fatta di continuità di valori ancestrali e di una visione umana e terrena della propria visione religiosa. La suggestione che tali processioni sanno trasmettere è un qualcosa di inenarrabile perchè bisogna compenetrarsi nella loro essenza, essere partecipi della cultura che le ha prodotte per coglierne il loro vero significato. Se si è distratto spettatore possono sembrare un·residuo di manifestazione folcloristica. Ma non è così. In realtà esse sono un momento della varia e complessa liturgia del Cattolicesimo che si esprime anche in queste forme esteriori che potrebbero, ai nostri giorni, essere erroneamente interpretate. Le processioni del Venerdi Santo, figlie delle sacre rappresentazioni medioevali, così come ora è il loro svolgimento, continuano la tradizione, portata dalla Spagna nel Sud Italia nel XVI secolo dai Gesuiti i quali inseriscono i “misteri” nel corpo delle preesistenti processioni. Ecco allora sfilare in bell’ordine, intervallati da lampioni o torce, i segni della Passione: ecco la borsa con i 30 sicli d’argento, il prezzo del tradimento di Giuda; la corona di spine con cui Cristo fu incoronato, per scherno, re; ecco il gallo, a ricordo delle parole di Gesù rivolte a Pietro “prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte” e così fu. L’orecchio è quello mozzato al Servo del Sommo Sacerdote Caifa all’atto della cattura di Gesù sul Getsemani; i chiodi, il martello e le tenaglie, strumenti usati per la crocifissione; la spugna imbevuta d’aceto che spregiativamente bagnò le labbra del Cristo, assetato sulla Croce; la lancia che ferì il suo costato; i dadi con cui i soldati romani si disputarono la tunica, anch’essa facente parte dei “martiri”. E ancora, tante croci di legno, simbolo dell’estremo martirio; il pannetto con l’effige della Veronica. Il lungo corteo è completato dallo stendardo della congrega che organizza la processione, da una croce nuda e da altri “misteri” come la bacinella con l’acqua e il panno con cui Pilato si lavò e asciugò le mani all’atto della decisione sul processo a Gesù, significando così la sua impotenza a decidere. Si giunge, poi, all’anima della processione in cui si riassume l’essenza stessa di essa: quella del dolore, tutto umano, della madre che va alla ricerca del proprio Figlio perduto. Viene portata a spalla la statua della Madonna, vestita di nero, chiusa nel suo dolore, che reca tra le mani un immacolato fazzoletto con cui asciugare le lacrime del suo ineffabile dolore. Le fanno eco le laceranti espressioni del coro del «Miserere » che ripetono le parole del Salmista che invocano il perdono e la redenzione del peccato. Diversamente dai portatori dei «misteri» o delle fiaccole che procedono tutti coperti dalla veste e dal cappuccio tanto da risultare irriconoscibili perchè l’atto penitenziale non ‘conosce volto nè ostentazione della propria persona, quelli del Coro, formato da più di 200 persone, vanno a viso scoperto perchè con più forza risuoni il grido della loro implorazione, essendo, essi, simbolo dell’umanità concorde nell’aspettazione del perdono dei peccati. Gli incappucciati della processione che esce la notte tra il Giovedi e il Venerdi Santo sono tutti vestiti di bianco, colore che più si addice all’atmosfera aurorale del sorgere del nuovo giorno. Quelli della sera, invece, sono tutti «insaccati» di nero come per confondersi nelle tenebre della notte. Di entrambe le processioni la suggestione che ne consegue tocca così le corde più recondite della sensibilità di coloro che assistono, assiepati ai bordi delle strade, muti in silenzioso raccoglimento. Anche per essi la processione è momento di meditazione e non di semplice osservazione. Ma la commozione raggiunge il suo culmine nella processione della sera in cui viene portato a spalla il Cristo Morto. Antica e venerata opera in legno del ‘600, essa precede la statua dell’Addolorata che non più, come il mattino, va alla ricerca del Figlio” ma, rassegnata, ne segue il corpo senza vita. Su di Lui si legge il dolore per le sofferenze patite ma anche la serena rassegnazione di chi, nella morte, ha adempiuto l’alta missione assegnatagli dal Padre: la redenzione dell’umanità dal peccato. La processione fissa, così, in modo eloquente ed immediato, concreto nella sua crudezza dei simboli, quello che è il mistero centrale del Cristianesimo: il Dio fatto Uomo che per l’umanità tutta si sacrifica per liberarlo dal peccato col suo dono gratuito di Amore.
Antonino Fiorentino