A volte, la data di un compleanno -29/01/14- reca con sè imprevisti sciami di immagini mentali che pochi istanti prima fluttuavano liberamente, del tutto sconnesse tra di loro, e soprattutto, non relative a detta ricorrenza.
E ora qui: animo pellegrino, esternatosi da me e intento a osservare mentre penso a quello stuolo di sorprendenti inattinenze, zampillate da tempi diversi, che si attraggono e si coagulano, laddove nulla è andato smarrito, e anzi, tutto è rimasto pulsante.
Come riemerso dal “sapore delle madeleine”, guardo il pensiero iniziare il proprio cammino dal dicembre 1992, allorquando per il catalogo di una mia personale in Roma, lo scrittore, Domenico Rea, tra l’altro scrisse “Personalmente non mi interessa sapere chi lo ha ispirato, e guardando le sue tele ho cercato di immaginare il suo mondo (…) di bambini-bambolotti, un tema inquietante (…).”. Mesi dopo, nell’agosto del 93, a Domenico Rea fu conferito il “Premio Strega” per l’opera: “Ninfa Plebea”. E datisi i legami di profonda stima intercorrenti tra lui e noi amici di Piano di Sorrento, accettò di tenere qui la sua prima conferenza letteraria, in merito all’opera premiata.
A margine di quell’affollatissima, annunciò che poco prima, l’aveva telefonato la regista: Lina Vertmuller, annunciandogli il progetto di voler realizzare un film tratto dal suo romanzo.
A conclusione di quella serata, chiesi a don Mimì Rea di voler porre dedica sul suo libro, pertanto, sedemmo accanto a un tavolino e, poco prima che egli esaudisse il mio desiderio, aprii il volume e lessi: “c’era sul letto matrimoniale, con in mezzo a gambe aperte Marietta, la sorellina spirituale di Miluzza, che era una bambola di pezza, plebea e contadina, da sempre seduta tra i due cuscini e da sempre la compagna di letto di Miluzza.”.
Lo scrittore colse appieno il nesso di quell’inaspettata lettura, e con proverbiale sguardo di arguto, occhialuto scugnizzo, sorrise, posando la sua mano sulla mia, poi, presa la penna, scrisse: “a Gaetano Tornatore, pittore di incanti e di sogni. 12/08/93.”.
Dicevo che dei tempi nulla si disperde e infatti, dipanando oltre, il filo della “matassa” riaffiora e mi conduce alle tante volte che per alleviare il lavoro mentale della mia attività pittorica, ascolto musica leggera o brani di musica classica. E tra quest’ultimi, ho sempre amato ascoltare la “Barcarola” (aria del 4° atto de: ”I racconti de les Contes di Hoffemann”, di J. Hoffenback.).
Confesso di non aver mai spinto il mio interesse oltre quel brano ma, recentemente, la famosa soprano: Desiree Rancatore mi ha fatto indirettamente capire cosa mi ero perso e quanto “peccato”.
Infatti, in seguito all’amicizia donatami dalla cantante lirica son divenuto “argonauta” dei suoi numerosi pezzi operistici, tutti godibili su facebook.
E così, navigando e velando, sono approdato anche sul fatidico 2° atto dei racconti di Hoffemann, e qui ho incontrato Olympia: la bambola-automa più volte interpretata da Desiree.
Tra quelle tante e, in particolare, mi ha colpito l’esecuzione tenutasi all’ Opera di Parigi infatti, da quell’Olympia emergono sorprendenti miscele di immagini, tempi, culture e finanche sovrapposizioni di personaggi e di “autotradimenti d’artista”.
Piacevolmente spiazzante è stato osservare che ogni peculiarità temporale della creatura di Hoffenback appare superata e dissolta dall’indubbio talento -anche recitativo- della nota soprano allorquando con amabile vezzo “tramuta” l’impugnato nero ventaglio in un microfono, ruotandolo e poi rivolgendolo al pubblico da essa incitato e incantato.
Per qualche istante l’atmosfera classica dell’opera sembra divenire attuale, e nella persona della stessa cantante lirica sembra scorgersi la cantante pop: Madonna.
Di quella bambola-automa, le abili mimiche lasciano intravedere il vasto repertorio dei pupi siciliani e anche, il principe Antonio de Curtis: “Totò a colori”.
Poi, il clou: la bambola-automa spinge sul carro di fieno lo stupito Conte di Hoffemann e consuma su di lui, ingordi amplessi.
A questo punto sorrido e, rammento le parole conclusive dell’intervista rilasciata dalla soprano palermitana a Sergio Bagnuoli per “GAY Tv” e, anche da quelle, rintraccio l’accennato “autotradimento d’artista”, rendendomi ulteriormente convinto che l’opera d’arte è la messa in scena di verità profonde.
Certo, quelle qualità gestuali fungono da “ausiliari ancelle” al talento canoro dell’artista ma, nello stesso tempo, pregiano ulteriormente l’unicità interpretativa della medesima.
Quell’ unicità interpretativa già da tempo riscontrata da Jean Cocteau allorquando affermava che non si dice mai: “guarda, una chitarra” –bensì- “questo è un Picasso”.
E così potremmo dire in merito ai suddetti bambolotti-bambole e anche per la bambola-automa: “guarda, l’Olympia della Rancatore”.
E così notiamo che ogni artista fa sempre il proprio autoritratto, anche se non vuole o non ne ha consapevolezza.
E’ il linguaggio dell’arte, che rende le cose viste, osservate e sottratte dal loro status pratico-strumentale, rendendole oasi di segni divini e voce della libertà dell’ Essere.
E abbandonarsi leopardianamente in quelle oasi, per avvertirne appieno l’immensità del mistero, poiché quel: “linguaggio non è opera dell’uomo ma dell’ Essere e l’uomo non fa che ascoltarlo” (Heidegger).
Gaetano Rancatore