articolo di Antonino Fiorentino
E’ tiempo de Natale
chiste so juorne de festa
t’ò dice na zampogna
e nu tricchitracco.
‘A gente pe’ la via
se scorda de tutte ‘e guaje.
E’ tiempo de Natale.
E’ tiempo de tavulate
mandarini, castagne,
fichi e noce,
zeppole e struffole
ce fanno cumpagnia.
Chiste so juorne de festa.
E’ tiempo de Natale.
E’ tiempo d’alleria.
Il Natale, il Capodanno e l’Epifania, tre momenti significativi del calendario cattolico, sono ricorrenze segnatamente religiose che, però, nel corso del tempo hanno smarrito molto della loro essenza e si sono connotati con significati diversi che hanno messo in sott’ordine la loro spiritualità. Se per un istante guardiamo al Natale dei nostri tempi, li vediamo dedicati a quella nuova divinità che ha per nome consumismo, quello del superfluo, sfrenato, neo pagano. È naturale che il fluire del tempo significhi anche cambiamento dei costumi, delle ritualità dell’uomo nelle manifestazioni con cui articola la vita, anche se l’uomo non smarrisce il suo personale patrimonio fatto di verità religiose, etiche, non scalfite dal tempo, patrimonio che si trasmette da generazione in generazione. Nel Natale vediamo qualcosa di miracoloso: un evento che ha letteralmente rivoluzionato il mondo viene raccontato, trasportato quasi su un piano familiare, con forme che mutano nel tempo ma che nella sostanza fissano idee e concetti da trasmettere agli altri perchè diventino patrimonio di fede di tutti. Pensiamo al presepe. Tradizione secolare sentita in senso di religiosità, rappresentazione ingenua e popolaresca della nascita di Cristo, il presepio, dopo gli inizi con San Francesco, suo inventore sulle colline di Greccio, ha trovato a Napoli e nel napoletano la sua patria. Sempre ha avuto finalità religiose con gli episodi evangelici fissati in una scenografia “standard” con effetti ora di opulenza, ora di dignitosa ma nobile povertà, specchio del tempo di cui fissava usi, costumanze, condizioni sociali. Come non ammirare ancora oggi i presepi del ‘700, il secolo d’oro dell’arte presepiale, sontuosi e abbaglianti nella loro esplosione di figure (i pastori) vestiti di prezioso tessuto che animano la scena con le rovine del mondo classico, di moda nel ‘700 quando si inizia lo scavo di Pompei, di Ercolano, insieme al mondo nuovo con i suoi nuovi traffici o mestieri. Coesistono presepi di modesta fattura, fatti di materiali poveri, senza alcuna pretesa d’arte. Tutti, però, in egual modo, trasmettono allo spettatore lo stesso messaggio di sempre: il ricordo della nascita di Cristo nella grotta di Betlemme. La Chiesa ha sempre festeggiato e festeggia con particolare e suggestiva ritualità: in ogni parrocchia si celebra il rito della Messa di Mezzanotte, messa solenne a cui fa seguito la processione del Bambinello in cui i fedeli accompagnano il simulacro di Gesù Bambino, per lo più di antica fattura, al suono antico di ciaramelle e di zampogne a cui fa da contrappunto lo sparo di mortaretti che col loro crepitio rendono la funzione più gioiosa. Mi piace ricordare come fino alla seconda metà dell’800 a Sorrento c’era la bella tradizione ad opera dei confratelli della Congrega dei Servi di Maria che portavano in processione, nella loro chiesa alle spalle del Duomo, un neonato in carne ed ossa, cosa che suscitava l’ammirazione dei fedeli che gremivano la chiesa per l’occasione. Ormai i suoni di ciaramelle e zampogne si sono quasi perduti. Fino a qualche decennio fa erano proprio gli zampognari ad annunciare le festività imminenti. Con le loro novene davano voce sia all’Immacolata (8 dicembre) che al Natale. Non era ancora spuntata l’alba e già le note delle zampogne squarciavano l’aria e davano la sveglia a quanti iniziavano la giornata di lavoro. Il pomeriggio inoltrato, all’imbrunire, terminava l’impegno di questi particolari suonatori che venivano dall’Irpinia o dalla Ciociaria. Lontani da casa erano felici di poter rimpinguire le loro scarse entrate di agricoltore o boscaiolo con le offerte che ricevevano per il “suono delle novene” dalle varie famiglie a cui regalavano sempre un cucchiaio di legno che essi stessi realizzavano. L’immagine del Natale che resta più viva nel ricordo di quelli che sono stati bambini è legata in particolare al cibo. In tempi di scarse risorse a disposizione delle famiglie, la festa era il momento rituale in cui si esorcizzava la miseria con le “abbuffate” cioè quelle grandi mangiate per cui tutte le famiglie davano fondo a tutto quello che si aveva per la buona riuscita di un rito quasi propiziatorio. I menù, cha anche oggi molti seguono sono in linea con le costumanze del Sud, detto il paese dei mangiafoglie, per cui sulle tavole, tripudi di odori e di sapori, di profumi particolari e tradizionali, non mancavano le verdure come broccoli di Natale, insalate di rinforzo, “friarielli” o minestre maritate; ma galline ruspantio carne di maiale e di vitello avevano il loro posto; senza dimenticare che viviamo sul mare, tra marinai e pescatori, il pesce ha il suo posto e fa la sua bella figura, venendo anche incontro a quei momenti di proibizione o astinenza dalla carne così come il precetto della Chiesa imponeva. Ma è nei dolci natalizi tradizionali che troviamo la vera anima della festa: struffoli e zeppole di fattura casalinga, roccocò, susamielli, sapienze, mostaccioli, paste di mandorle crude o cotte, paste reali inebriavano l’aria con i loro profumi che solo a respirarla era un piacere. A Sorrento via S. Cesareo era il regno di questi odori di dolci speziati dai sapori indimenticabili con i laboratori di pasticceria, famosissimi un tempo, come “Funzionista” o “Mimì”. Ma via S. Cesareo era anche il regno di “Miezu chilò” di “Puppenella ‘a Vedova” dei fratelli Russo, del “Magnuttone” di Aldo Pollio, di Piemonte, di Aiello, del panificio di Salvatore “o russo” di Pierino, di Agostino il baccalaiolo, di Antonino Gargiulo, dei fratelli Ferola “e pallille”, di Rita e Carlucciello, di Zi Monaco, di Catiello, di Filumena ‘a panettera, di Nannina ‘a baccalaiola, di Peppino “sotto ‘o rillorgio” di “Peppe ‘e scanniello” di Antonino Casola, di Supino… nomi che oggi, forse, non dicono nulla, ma allora, quando via S. Cesareo era il “supermercato di Sorrento”, la sua dispensa alimentare, chi fruttivendolo, chi macellaio, chi pescivendolo chi baccalaraio, chi salumiere, chi fornaio sapeva assicurare la sua parte di atmosfera natalizia fatta di offerta di prodotti di grande qualità e di addobbo delle loro botteghe: uno spettacolo solo a vederle. Abbiamo volutamente tralasciato di parlare di altri aspetti del Natale che fu, come quello dei giochi tradizionali (la tombola e vari giochi di carte napoletane). Voglio, però, ricordare la “Cantata dei Pastori” , la settecentesca sacra rappresentazione delle peripezie di Maria e Giuseppe in cerca di un posto sicuro dove far nascere il Redentore. Osteggiati da vari demoni, trovavano in personaggi semplici come il cacciatore, il pescatore e nell’esilerante “Razzullo” l’aiuto per sconfiggere il male. Era il Circolo Cattolico intitolato a Sant’Antonino Abate che organizzava, con i suoi iscritti, la “Cantata”, prima in una grande sala adiacente la Basilica di Sant’Antonino e successivamente negli anni più a noi vicini, nel teatro della cattedrale. Di essa, ora, se ne è persa traccia. Il tempo, tiranno, ha contribuito a far svanire tante belle costumanze natalizie anche se Natale continua ad essere la festa della famiglia, con le sue gioie, le sue speranze con una tregua allo sfrenato ritmo del quotidiano. L’importante è che nel messaggio eterno, sempre attuale del Natale, sia anche la nostra rinascita nel segno di amore, fratellanza, bontà e amicizia, cioè di quei valori che la festa sottintende.