QUALITA’ E VARIETA’ DELLA FRUTTA
La frutta dei nostri giardini e la loro storia: L’UVA
di Cecilia Coppola
Io penso che, nonostante i ritrovamenti archeologici testimoniano l’ apparizione della Vitis Vinifera intorno a 300.000 anni fa, permane sempre un alone di mistero sulla sua “nascita” nel nostro pianeta. Giuseppina Starace Cilento, che ho incontrato nel suo fondo in quell’angolo di paradiso della zona alta dello Scraio, mi parla di una bella leggenda sulla vite che nonna Rosalia Cinque le raccontava:” In passato era solo una pianta ornamentale dai rami che si allungavano ed innalzavano dove trovavano sostegno per cercare il sole purtroppo coprivano d’ombra le piante da frutto che ne soffrivano, private del calore e della luce. Era considerata una pianta bella ma cattiva ed egoista come la Strega della Grotta che oggi è chiamata “ro muro” o “ ro diavule”, situata nel territorio che si estende dalla Trinità a Positano.Gli agricoltori, credendo fosse opera di un suo malefico decisero di strappare i rami della povera vite che, provando dolore, pianse e solo un usignolo la confortò con la dolcezza del canto a tal punto che le sue lagrime rimasero sospese fra le foglie come piccole perle per tutta la notte. All’apparire del sole per incanto si trasformarono in piccoli frutti che si raccolsero a grappolo. Gli uomini, assaporando la loro dolcezza, scoprirono che si poteva ricavanre una bevanda, il vino, che rinvigoriva e metteva allegria, ma poteva anche diventare pericoloso”. Esiste anche un’altra leggenda quella di Lucifero che, prima di allontanarsi dal Paradiso, da cui era stato cacciato, riuscì a rubarne un pezzo e con esso precipitò nel Golfo di Napoli. Quando Dio, durante una visita nei luoghida lui creati accompagnato dall’arcangelo Michele e da San Gennaro, giunse a Napoli e nella penisola sorrentina si accorse del furto ma, non potendo più recuperare il pezzo di terra trafugato, dispiaciuto non riuscì a trattenere un pianto dirotto. Le sue lagrime, come pioggia copiosa, bagnarono la campagna partenopea facendo spuntare la vite, la cuiuva produsse il vino che prese il nome di Lagrima Christi. La vite quindi fece la sua comparsa e offrì agli abitanti diverse specie dei suoi frutti, ricordiamo che, nelle zone collinari di Meta presso la località Alberi e di Vico Equense , sembra che i Greci introdussero i vitigni dell’uva di “sabato”, una varietà dal nome misterioso, a bacca rossa, che i contadini coltivano nelle zone meglio esposte della Costiera sorrentina ed in particolare nei casali collinari di Vico. Più tardi i Romani si servirono dell’ “uve ‘e sabete”, dell’uva di sabato nel processo di produzione del vino Falerno, celebrato dai poeti dell’antichità classica, presente tanto ai banchetti degli imperatori, quanto negli approvvigionamenti che seguivano gli eserciti ed i generali durante le imprese per ingrandire l’Impero. La penisola sorrentina offriva diverse specie d’uva, tra cui la “ cornaiola o a cordicelle”, così chiamata per la sua forma a corno, oggi quasi scomparsa essendo una qualità delicata,non resistente, bisognosa di attente cure, con un sapore piacevolmente dolce e un retrogusto amarognolo. “Il guaio di questa qualità – mi dice Giuseppina Starace – è che non riesce a maturare bene e per questo motivo anticamente le pigne si raccoglievano quasi acerbe per metterle sotto spirito. In passato i contadini ne formavano pergolati sullo spiazzo delle case coloniche accanto alla cucina perché per la sua forma strana si credeva avesse proprietà scaramantiche, un corno naturale contro il malocchio, e anche perché si temeva venisse rubata, appena iniziava a maturare, per prepararla sotto spirito, pro- cedimento che la rendeva una leccornia deliziosa. Un’altra specie, quasi scomparsa, è l’uva di Sant’Anna, una vera primizia, che fruttifica nel mese di luglio, nel periodo in cui si celebra la santa madre della Vergine e presenta chicchienormi alternati a chicchi piccoli di una dolcezza incredibile”. Gli agricoltori sorrentini coltivano ancora una qualità di uva di origine remota, l’uva fragola. Mi racconta Giannina Salvo Irolla, una vera memoria storica delle tradizioni agricole – “ Intorno alla mia casa, nel vicoletto di Mortora a Piano, correva sull’alto muro di tufo un pergolato di uva fragola e di uva di vendemmia – e tutti noi bambini attendevamo che Ntulino, il nostro contadino, portasse per raccoglierla la scala “ longa” che raggiungeva anche gli otto o dieci metri. Essa aveva circa 16 scalini bendistanti fra loro, all’estremità inferiore era appuntita e rivestita di ferro nell’ultimo tratto, perché si incastrasse solidamente nel terreno a tutela di chi vi saliva. Ntulino portava appesa ad una spalla la “fescina” di vimini a forma di cono e il manico era munito da un uncino di legno. Per lunghe ore saliva e scendeva e noi facevamo lo “sciavichiello” perché riuscivamo a prendere qualche bella pigna di uva fragola che dissetava con il suo dolce sapore, colorando di rosso scuro la nostra bocca e ahimé anche i vestiti. L’uva veniva poi messa nel “parmiento”, una stanza a pianterreno dove vi era una vasca di mattoni rivestita di cemento con un buco ad un lato. Qui veniva pigiata insieme ad altre pigne dai contadini cheavevano i piedi puliti e lustri lustri e i pantaloni rimboccati sulle ginocchia. Pigiavano e cantavano e intorno si creava un’atmosfera festosa che dissipava la fatica. Qualche volta, di rado, noi bambini avevamo il permesso di partecipare alla pigiatura. Era una gioia grande! Ricordo ancora la pungente ma piacevole sensazione di gelo lungo le gambe quando fuoriusciva il succo profumatoe dolcissimo e il pizzicorino al naso dovuto all’inizio della fermentazione. Il liquido spremuto scorrendo nel buco veniva raccolto in tini, in panciute damigiane o nei “ perietti” particolari contenitori di vetro. A fine pigiatura nel parmiento rimanevano le “coccole e le streppole” ( le pellicine dei chicchi d’uva e i gambi del rappolo) sui quali i contadini gettavano acqua, che poi raccoglievanoin bottiglioni. Questo nuovo liquido si chiamava “l’acquata” e venivabevuto a tavola, in quanto ilvino per sostenere l’economia familiare doveva essere esclusivamente venduto. Anche per la Festa della vendemmia, quando si mangiavano la pasta al sugo con le braciole e la pizza di crema, si brindava con l’acquata. Il contadino di allora non aveva grandi possibilità, persino le scarpe erano un lusso e andava scalzo per il giardino e le piante dei suoi piedi avevano un’estremità callosa e spessa che neanche il vetro riusciva a ferire” . Riflettiamo con attenzione sui sapori dimenticati della nostra penisola ricchi di contenuti culturali, di tradizioni e di profumi naturali e genuini lontani dai trattamenti chimici e dannosi. Oggi in nome e in ricordo di quella sobrietà antica tutti dovremmo ritornare ai momenti che ripropongono sane usanze e valori importanti e additarle soprattutto ai nostri ragazzi per farne tesoro .